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Vecchie e nuove povertà

Vecchie e nuove povertà

di Rita Cutini – vicepresidente Cnv. Il tema della povertà oggi è di straordinaria attualità: la crisi economica non ha ancora espresso tutti i suoi risvolti negativi nei confronti di gruppi di popolazione fragili o infragiliti  dalla crisi stessa. Questo 2010, non ancora terminato, è l’Anno Europeo di lotta alla povertà e all’esclusione sociale. Quando è stato indetto ancora non si parlava della crisi economica che poi ha messo in grave affanno i mercati finanziari di mezzo mondo.

L’Istat ha condotto una ricerca sulle condizioni di vita e i redditi in Italia, pubblicata a dicembre 2009 e riferita all’ultimo trimestre 2008 [1]. Le difficoltà economiche che le famiglie riferiscono di aver sperimentato confermano il quadro della crisi economica e finanziaria in atto.

  • Nel 2008 cresce la quota di famiglie che dichiara di arrivare alla fine del mese con molta difficoltà (il 17,0 per cento, contro il 15,4 per cento del 2007).
  • Aumentano le famiglie che non riescono a provvedere regolarmente al pagamento delle bollette (11,9 per cento, contro l’8,8 per cento del 2007.
  • All’acquisto di abiti necessari (18,2 per cento, contro il 16,9 per cento).
  • È statisticamente significativo è pure l’incremento delle famiglie cui è capitato di non avere, in almeno un’occasione, soldi sufficienti per pagare le spese per i trasporti (8,3 per cento, contro il 7,3 per cento del 2007) e di quelle che sono in arretrato con il pagamento del mutuo (7,1 per cento di quelle che hanno un mutuo, contro il 5,0 per cento).
  • Stabili rispetto al 2007, almeno a livello nazionale, le quote di famiglie che non si possono permettere di riscaldare adeguatamente la propria abitazione (10,9 per cento) e quelle che hanno risorse insufficienti per gli alimenti (5,7 per cento) e per le spese mediche (11,2 per cento).
  • Quasi un terzo delle famiglie (31,9 per cento) ha poi riferito di non essere in grado di far fronte ad una spesa imprevista di 750 euro con risorse proprie.

C’è un ulteriore elemento che va considerato quando si parla della povertà ed è quello della disuguaglianza. Non solo quanti e chi sono i poveri, ma la distanza che li separa dal resto della società. Misurare la disuguaglianza di una società significa misurarne non solo le dinamiche economiche, le scelte politiche – questo sicuramente – ma anche il clima etico e i valori di fondo della vita sociale stessa.
Maurizio Franzini nel suo recente volume Ricchi e poveri, l’Italia e le disuguaglianze inaccettabili. Dice Franzini: “Sono ben pochi i paesi avanzati dove la disuguaglianza economica è più alta che in Italia. Considerando i 30 paesi OCSE, solo 5 fanno peggio dell’Italia”. [2] Dallo stesso studio apprendiamo che è proprio la Regione Lazio  ad avere il primato della disuguaglianza tra le Regioni italiane.
Termino questa breve disamina della povertà nel nostro paese con l’ultima considerazione: la disuguaglianza è un tratto che contraddistingue il nostro paese da molti anni. Da circa un quindicennio risulta essere invariato. Cioè e dire che dalla condizione di povertà è molto ma molto difficile uscire: se sei povero è molto probabile che povero resterai. Non mi soffermo sui i vari e diversi calcoli per misurare la disuguaglianza cioè la distanza che separa i poveri dai ricchi, ma solo va sottolineato che più alta  è la disuguaglianza e più è alto il prezzo che si paga, non ultimo  quello di una frantumazione del tessuto sociale.
A ben vedere, le politiche sociali hanno proprio questo compito: rimuovere quelle condizioni, quegli ostacoli che generano disuguaglianza e impediscono lo sviluppo della persona umana. O per dirla come dice la nostra carta costituzionale (art. 3): “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana (…)”. [3]
Il richiamo alla carta costituzionale promulgata in Italia all’indomani del seconda guerra mondiale non è a caso. Quando si parla di politiche sociali, non si può non ricordare quanto queste politiche abbiano sostenuto, promosso e facilitato il processo di democratizzazione, di sviluppo economico e sociale nel nostro paese dopo il secondo conflitto.
Qualche anno fa con un volume coraggioso Jeffrey D.Sachs, parlava di “fine della povertà”. [4] La fine della povertà, secondo questo esperto di fama, si presentava, e si presenta oggi, come un obiettivo ragionevole, possibile, realistico alla portata di questa generazione, la nostra generazione. Marco Zupi si pone la domanda se sia possibile sconfiggere la povertà e come. [5] E ancora molti decenni fa, in Italia circolava un celebre libro di Ernesto Rossi: “Abolire la miseria”. [6] Un volume che è stato ripubblicato e riproposto più volte e anche recentemente. Quando Ernesto Rossi scriveva questo saggio, nel 1942, veniva pubblicato il Piano Beveridge. Ernesto Rossi si trovava nel suo confino a Ventotene con uno dei padre fondatori dell’Europa Altiero Spinelli.
Sconfiggere la povertà, come la definiva Beveridge, un male non necessario, è qualcosa a cui dobbiamo rinunciare? O è una responsabilità che ci deve impegnare tutti. Arrivo quindi alla seconda parola che guida questo mio breve intervento: la parola responsabilità. 
L’argomento che mi è stato assegnato: vecchie e nuove povertà, una lettura non istituzionale, ha bisogno forse di una precisazione. Di chi parliamo quando diciamo lettura non istituzionale? Le politiche sociali sono per definizione politiche “istituzionali”. Ma da sempre e soprattutto nel nostro paese le risposte ai bisogni sociali hanno avuto una ricca articolazione “dal basso”. Oggi si usa, e io lo utilizzo volentieri, il termine società civile per dire tutti quei soggetti che hanno un ruolo nella costruzione del benessere sociale e anche e soprattutto delle persone più deboli. Ricordo solo con un inciso che la figura dell’assistente sociale in Italia nasce e si sviluppa non in “ambito istituzionale” ma proprio dal ricco e articolato mondo della società civile che con passione negli anni della ricostruzione seppe dare spessore e lungimiranza al dibattito attorno ai temi assistenziali. Le scuole nuove, così chiamate, di servizio sociale ebbero tutte, senza distinzione origine da settori della società civile impegnati nella costruzione democratica del nostro paese: l’esempio del Cepas di Roma o le scuole dell’EISS etc. Può sembrare una battuta ma non lo è: se c’è una professione “non istituzionale” è proprio quella dell’assistente sociale. Chiudo la parentesi.
La partecipazione dal basso, la responsabilità condivisa, sono davvero fattori potenti di coesione sociale e garanzia di crescita e di un benessere diffuso. Questo è un ruolo positivo da sottolineare.  Di questo parla anche Jonathan Sacks nel suo bellissimo saggio “La dignità della differenza” quando osserva che il mercato e lo stato “hanno indebolito le istituzioni che creano fiducia”. Ci possono essere termini diversi “terzo settore”,“istituzioni indirette”, “società civile” o “capitale sociale”, ma – argomenta Sacks – “quello che hanno in comune è l’importanza che danno alle relazioni non contrattuali (…) senza di esse non solo i mercati e gli stati iniziano a vacillare, ma la vita sociale stessa perde grazia e civiltà”. [7]
La lotta alla povertà non è un fatto che riguarda solo chi ne è il beneficiario e chi si occupa di lui. Non è stato così in passato e tanto meno può esserlo oggi. È questa una visione riduttiva che cerca di emarginare in un angolo residuale una sfida che è invece centrale e che coinvolge direttamente ogni piega della vita sociale. Forse è solo un rischio, ma mi sembra di intravedere la tendenza ad una divisione di “competenze” tra le politiche pubbliche e la società civile: la politica  ha il compito di arginare, controllare, contenere la povertà, e poi c’è il ruolo della società civile, intesa come quei settori particolarmente sensibili che sono “specializzati” – per così dire – nelle battaglie perse. Come qualcuno ha detto: “dissociando il disagio sociale dalla sicurezza viene così attuato un’interessante divisione del lavoro tra società civile e Stato: La prima si occupa del disagio, il secondo della sicurezza”. [8]
Un esempio fin troppo emblematico di questo cambiamento di approcci e di linguaggi in Italia lo si osserva a proposito del grande tema della immigrazione o del popolo rom dove le parola controllo e sicurezza hanno avuto la meglio.
Coesione sociale. L’opposto di coesione non è solo esclusione (che riguarda solo chi ne è vittima) è frammentazione, un prodotto ben più devastante e nocivo per le nostre costruzioni sociali. È il triste spettacolo che purtroppo i nostri tessuti relazionali offrono: fratturati, frammentati, impazziti. Il grande tema delle periferie delle grandi città, il razzismo che sembra rialzare la testa pericolosamente, le violenze intra-familiari o, comunque, un imbarbarimento delle relazioni (il recente drammatico episodio che ha coinvolta Maricica, la donna romena uccisa con un pugno alla metro). Un imbarbarimento che si riverbera anche sul fenomeno dell’isolamento sociale che attanaglia le generazioni più anziane delle nostre società europee.
Coesione sociale. Perché in realtà ogni volta che si attenuano le disuguaglianze e le disparità di ricchezza, per dirla in breve: che si aiuta un povero, i beneficiari non sono i solo i poveri ma è tutto il clima umano e  sociale ad esserne beneficato.
Ma c’è da chiedersi se si debba, davvero, rinunciare per forza all’ambizione se non di abolire la povertà, di abolirne almeno il volto più duro e odioso che è la miseria, che è la mancanza assoluta di mezzi, se non sia questo un obiettivo realistico anche e soprattutto in un periodo di crisi. Se è proprio troppo fuori la portata dei nostri bilanci l’obiettivo che nel nostro paese un bambino di tre anni, Mario, non muoia per l’incendio sviluppatosi nella baracca dove viveva con i giovani genitori come è successo questa estate a Roma. Morire di povertà. E iniziano a non essere casi isolati. Di chi è la responsabilità? Mi verrebbe da dire che di fronte a politiche pubbliche che si ritirano e si spogliano dalle proprie funzioni e responsabilità ci sarebbe bisogno di un soprassalto delle coscienze e dire che se in una città come Roma bambini vivono e muoiono in queste condizioni di povertà così ingiuste è anche un mio problema, è un fatto che mi riguarda, come professionista dell’aiuto ma soprattutto come cittadina e come persona. E non è fuori dalle nostre possibilità cambiare le cose.
In conclusione ancora una considerazione di Sacks: “le civiltà non sopravvivono con la forza bensì con il modo con cui rispondono alla debolezza; non con la ricchezza bensì con l’attenz\ione nei confronti dei poveri […] Il valore che in assoluto ci dovrebbe interessare massimizzare è la dignità umana”. [9] C’è una responsabilità comune che deve vedere impegnata la società civile, gli operatori sociali, e le politiche pubbliche nello stesso sforzo: restituire dignità a rispetto a tutti i suoi cittadini a partire dai più poveri, perché la vita sociale stessa riacquisti grazia e civiltà.

* Bozza non corretta della relazione tenuta in occasione dell’incontro “Il Servizio Sociale in un territorio che cambia: le trasformazioni della povertà” all’Università Roma Tre. L’evento era inserito nel ciclo di appuntamenti sul servizio sociale.
Scarica la locandina in pdf >>>

Note.
[1]
Istat, statistiche in breve, 29 dicembre 2009, Condizioni di vita e distribuzione del reddito in Italia Anno 2008
[2] Maurizio Franzini, Ricchi e poveri, l’Italia e le disuguaglianze inaccettabili, Università Bocconi Editrice, Milano 2010
[3] Costituzione Italiana, Art. 3. Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
[4] Jeffrey D. Sachs, La fine della povertà, come i paesi ricchi potrebbero eliminare definitivamente la miseria dal pianeta, Mondadori, Milano 2005.
[5] Marco Zupi, Si può sconfiggere la povertà? Editori Laterza, Roma-Bari 2003
[6] Ernesto Rossi, Abolire la miseria, Laterza, 2002, pp. 244
[7] Jonathan Sacks, La dignità delle differenza, come evitare lo scontro delle civiltà, Garzanti 2004, Milano cit. pag 170
[8] Introduzione di Nadia Urbinati a Jaume Curbet, Insicurezza, giustizia e ordine pubblico tra paure e pericoli, Donzelli, Roma 2008
[9] Jonathan Sacks, La dignità delle differenza, come evitare lo scontro delle civiltà, Garzanti 2004, Milano cit. pag 214

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1 commento

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